Ci risulta che la Direzione Aziendale di C.R.Asti stia tornando alla carica nel richiedere, a particolari figure professionali, la firma del famigerato patto di non concorrenza. In passato ci siamo già interessati della questione ma è bene rinfrescarsi un po’ la memoria.
Se è legittimo chiedere, è altrettanto legittimo rifiutare. Non esistono infatti vincoli giuridici che obblighino il dipendente alla firma di tali patti. Tanto più se i colleghi in questione hanno sfacciatamente profili professionali non adeguati alle responsabilità/portafoglio a loro assegnati e, soprattutto, se tali patti non sono adeguatamente remunerati! Per avere una visione più completa della questione, riportiamo qui sotto un articolo del SOLE24ORE del dicembre 2013:
“Quando il lavoratore dipendente ha l’opportunità di cambiare azienda, può ricevere la richiesta di sottoscrivere il patto di non concorrenza: un accordo volontario con il quale accetta la limitazione della propria attività, una volta che il rapporto in corso sarà cessato.
È bene ricordare che, mentre il rapporto si sta svolgendo, il lavoratore non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie sull’organizzazione e i metodi di produzione, o farne uso in modo da nuocere all’impresa: questo obbligo è già previsto dall’articolo 2105 del Codice civile, e quindi non necessita di alcun accordo particolare con il prestatore.
– La stipula. La stipulazione del patto nel lavoro dipendente (per gli agenti vige l’articolo 1751-bis del Codice civile) deve avvenire in forma scritta e, a pena di nullità, deve prevedere un corrispettivo e contenere il vincolo entro determinati limiti di oggetto, tempo e luogo. L’accordo può essere concluso al momento dell’assunzione, nel corso del rapporto o al momento della cessazione. Potrà rientrare anche nel l’ambito di una risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, potendo altresì essere formalizzato in «sede protetta», ovvero nell’ambito di un contratto certificato.
– L’oggetto del patto. Il patto può limitare la futura attività del lavoratore non solo riguardo all’assunzione presso un altro datore, ma anche al l’avvio di un’attività autonoma, all’associazione in cooperativa o a collaborazioni autonome o parasubordinate.
Le attività vietate dall’accordo possono essere sia quella svolta presso il datore mentre il rapporto è in corso, sia altre, ritenute potenzialmente nocive agli interessi dell’impresa.
– La durata. L’articolo 2125 del Codice civile prevede che il patto non possa superare cinque anni per i dirigenti e tre anni negli altri casi (operai, impiegati e quadri). I patti che superino questi limiti devono considerarsi ridotti a quelli massimi previsti dalla legge.
La congruità della durata dipende non solo da quanto concordato tra le parti: deve essere valutata anche in relazione agli altri elementi, con particolare attenzione alle limitazioni dell’oggetto e al compenso.
– Il corrispettivo. Il patto deve prevedere l’erogazione di un corrispettivo come «prezzo» della rinuncia del lavoratore a svolgere alcune mansioni in un determinato mercato per un periodo prestabilito. È fondamentale, dunque, che questo appaia congruo, perché la giurisprudenza ritiene nulli i patti che prevedano compensi simbolici o sproporzionati (al ribasso), rispetto al sacrificio richiesto.
Il corrispettivo deve quindi risultare proporzionato alla posizione professionale del dipendente e al trattamento economico percepito, all’ampiezza del vincolo territoriale, alle attività vietate e alla durata. Quanto alle modalità di pagamento, si può prevedere un’erogazione mensile nel corso del rapporto o dopo che questo sia cessato, come pure una somma una tantum alla cessazione, o trascorso un certo periodo dopo la cessazione, e quando il datore abbia verificato il rispetto degli accordi. È possibile anche stabilire in anticipo una penale cui sarà soggetto il lavoratore che violi gli accordi.
– L’applicazione territoriale. Il patto di non concorrenza deve identificare espressamente la zona in cui l’attività è vietata: non sono efficaci indicazioni generiche e troppo estese.
In relazione alla globalizzazione del mercato del lavoro, è forte la tendenza a limitare l’attività dei lavoratori, specialmente di quelli più qualificati, non solo con riguardo a una provincia o regione, ma anche all’intero territorio nazionale o europeo.
Anche in questo caso, ovviamente, avrà un rilievo determinante una certa elasticità interpretativa. Oltre al territorio, avranno quindi importanza, ciascuno con il proprio peso specifico, gli altri singoli elementi essenziali del patto.
– L’interesse del lavoratore. Considerato che la firma del dipendente è sempre indispensabile, quel che rileva è che gli restino effettive possibilità di impiego. Sono nulli, dunque, i divieti che comprimano la professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano ogni potenzialità reddituale.
In alternativa, il lavoratore potrà esigere un’adeguata riparametrazione dell’accordo, chiedendo l’erogazione di un corrispettivo più elevato, salvo poi, nel caso in cui la richiesta dia esito negativo, denunciare giudizialmente l’iniquità della clausola per ottenere il riconoscimento della nullità del patto.”
La Fisac Cgil rimane ovviamente a diposizione per ulteriori eventuali informazioni.
Asti, 19/03/2018 FISAC CGIL BANCA DI ASTI